martedì 28 maggio 2013

Le basi psicosociali della violenza contro le donne

Non so se avete mai sentito un adolescente antisociale parlare del suo ideale di famiglia. Non della sua famiglia ideale, ma proprio di come immagina che sarà la sua famiglia se per lui “tutto andrà per il meglio”.
Io ne ho sentiti un po’. Si tratta di narrazioni molto simili tra loro – perlopiù agghiaccianti.
Si tratta di narrazioni che fanno più o meno così:
Sono pieno di soldi, ho una bella casa, con il giardino, una bella macchina veloce e una bella ragazza.
Fine della narrazione. Gli adolescenti antisociali non sono di moltissime parole.
Poniamo che nelle quattro sedute successive, con grandissima fatica, riesci a espandere un pochino questa narrazione. Diciamo che riesci a far aggiungere qualche dettaglio, diciamo che riesci a farti una vaghissima idea delle emozioni sottostanti.
“Sono pieno di soldi”: Magicamente, ho accumulato una grossa fortuna, non lavorando, ma con la mia astuzia. Se l’ho fatto a danno di qualcun altro, va be’. Ora devo solo spenderli.
Notazione psicologica: questo è un tipico ragionamento antisociale. Non c’è una pianificazione realistica. Non c’è nemmeno la pianificazione irrealistica tipica dell’adolescenza. C’è un salto. Dentro questo salto, implicito, c’è un atto aggressivo nei confronti della società: un furto, una truffa, un’appropriazione indebita.
“Ho una bella casa, con il giardino, una bella macchina veloce”: ogni ulteriore elaborazione, di norma, porta solo ad avere qualche dettaglio aggiuntivo sul numero delle stanze della casa o sul modello della macchina. È un semplice stereotipo, non un’immagine reale. È priva di tocchi emotivi.
“E una bella ragazza”: di nuovo, a una richiesta di ulteriore elaborazione, di solito il paziente risponde elencando qualche specifica tecnica della ragazza. Di solito,
“tettona”.
Sì, non sono di molte parole, gli adolescenti antisociali.
Se lentamente e prudentemente sondati in merito, finiscono, però, col restituire un’altra immagine stereotipata. Quella di una ragazza senza caratteristiche personologiche, che cucina e riordina.
Ora, alcuni di voi penseranno che si tratti di uno stereotipo sessista. Non lo è. Non per l’antisociale. Per l’antisociale si tratta di un semplice espediente mimetico: dato che la sua rappresentazione degli altri è vuota, la riempie con qualcosa che gli sembra accettabile, condivisibile da tutti e non-problematico.
Se provaste a parlare con un antisociale adulto di politica, scoprireste un qualunquista. Uno che dice (anzi, che sostiene con foga) che i politici sono tutti ladri, che gli extracomunitari sono tutti delinquenti e le tasse sono troppo alte.
Tutto questo uscirebbe con naturalezza incredibile dalle labbra di un ladro inveterato e privo di sensi di colpa, che frequenta senza problemi delinquenti di qualsiasi nazionalità e che non paga le tasse.
Parlare con uno psicopatico adolescente del suo ideale di famiglia è agghiacciante non per lo psicopatico in sé, ma per il perfetto, inadulterato, ritratto che, involontariamente, ti fornisce dello stereotipo sociale nel quale vive – e a cui attinge con intenti mimetici, lui.
Negli ultimi mesi il dibattito sulla violenza contro le donne è salito di livello. È salito di livello nel senso che ha avuto un’incredibile copertura mediatica, ma, nel contempo, è salito di livello nel senso che si è fatto anche più complesso, meno banale.
E anche, certo, più strumentalizzato.
Non intendo entrare in questo dibattito, ora. Vi segnalo un paio di post interessanti. Questo, in cui Loredana Lipperini risponde a chi afferma che un’emergenza non c’è, e questo, in cui si parla proprio del falso concetto di emergenza all’interno del discorso sul femminicidio.
Al di là di qualsiasi considerazione sulla “bolla mediatica” e sull’uso strumentale dell’emergenza, resta un fatto: più di metà delle donne uccise in Italia negli ultimi anni sono state uccise da qualcuno che era loro vicino. Il marito, l’ex-marito, il ragazzo, l’ex-ragazzo, il padre, il fratello, il cugino…
Tutti uomini che hanno tolto (spesso con efferata fantasia) la vita a donne che conoscevano e per cui provavano dei sentimenti.
Questo dato (i cui reali contorni numerici sono sfumati) versus il dato degli omicidi di uomini, compiuti in modo più diversificato all’interno della criminalità organizzata, durante un altro reato, da sconosciuti o da conoscenti.
Dunque, come succede che se un uomo viene ucciso viene ucciso da un omicida dal profilo molto ampio, mentre se una donna viene uccisa, due volte su tre, si tratta di un assassino a lei vicino?
È fondato supporre che le radici di questa dinamica affondino nello stesso terreno culturale (o, per meglio dire, sociale) in cui affondano le radici degli abusi sulle donne, delle discriminazioni sul lavoro delle donne, della violenza domestica, della prostituzione e dello stupro?
Di più, è fondato supporre che l’humus sociale in cui germogliano tutte queste belle pianticelle velenose sia lo stesso della mercificazione del corpo femminile, del pregiudizio sessuofobo, dei movimenti pro-life e dei valori “tradizionali” di varie religioni?
È possibile ipotizzare che ci sia una sovrapposizione parziale con idee apparentemente distanti, come quella della maternità come più alta ambizione femminile, della cura del proprio uomo come naturale istinto femmineo, della difesa del nucleo familiare come missione tipicamente muliebre?
Infine, c’è una relazione con l’antico e tuttavia radicato stereotipo della donna come essere asessuato, puro, casto, elevato, innocente, privo di impulsi aggressivi e sessuali, contrapposto a quello dell’uomo aggressivo, sessuale, predatore, peccatore?
Pensate per un attimo come se foste psicopatici puri.
Lo psicopatico, inteso nell’accezione più ristretta di Hare, è praticamente un essere preadamitico. Uno che non ha mangiato dall’albero della conoscenza, uno che non sa distinguere il bene dal male.
Quando si muove nel mondo – per i suoi scopi – si mimetizza usando ciò che ha attorno. Non prova empatia, non prova senso di colpa, mente alla stessa velocità con cui parla.
Uno psicopatico, se deve descrivere una donna, in generale, la descrive esattamente come l’essere asessuato, puro, casto, elevato, innocente, privo di impulsi aggressivi di cui sopra. Lo pensa? (Lo sente?) No. Non ha la più pallida idea di che cosa sia una donna come non ha la più pallida idea di che cosa sia un essere umano. Ma, mimeticamente, la descrive così.
E non è scemo, lo psicopatico puro. È goffo, tuttalpiù, perché la sua mancanza di empatia finisce per fregarlo, sul lungo periodo.
Ma la sua analisi dell’environment che lo circonda è assolutamente accurata.
Se volete conoscere il mondo, parlate con uno psicopatico.
Detto questo, facciamo attenzione. Quelle stesse dinamiche predatore/preda sono il motore di una vasta serie di fenomeni, per lo più adattivi. Buona parte dei nostri meccanismi erotici si basano su quelle dinamiche (i nostri meccanismi erotici non sono politically correct). La completa censura di queste dinamiche, da parte della società, porta a una serie di effetti collaterali imprevedibili, tra i quali il principale è il non-padroneggiamento di quelle stesse dinamiche e a una diminuzione delle nostre abilità sociali.
È una questione ampia. Lavorando con i pazienti nevrotici, ti trovi spesso a dover elaborare l’aggressività. Dato che si tratta di un sentimento socialmente censurato – e difficilmente esperito in un contesto “autorizzato”, come in guerra – l’aggressività crea spesso dei problemi espressivi, nelle persone. Alcuni di noi, inoltre, hanno delle difficoltà nel riconoscerla. Non si trovano a esperire situazioni tipo “sono così incazzato che ti spaccherei la faccia, ma invece ti insulto”, quanto situazioni tipo “non sono affatto arrabbiato, mi mangio un mars”. O meglio, l’idea sarà solo “mi mangio un mars”, senza la parte in cui neghiamo di essere arrabbiati. Infatti, non lo neghiamo: lo rimuoviamo.
Qualcosa di simile può avvenire con la dinamica predatore/preda di cui parlavamo prima, che è una variante più basica e ampia della questione.
La parte socialmente accettabile di questa dinamica la esprimiamo, la parte non accettabile la rimuoviamo. Ma la parte rimossa agisce in modi imprevedibili.
Ci sono quindi, a mio avviso, tre componenti:
1) Una parte autentica e vitale di questa dinamica, che agisce come motore sano nelle interazioni sociali e nell’attrazione. Questa è la parte che lo psicopatico non sospetta neanche, non conosce e non comprende. (Sì, gli psicopatici sono esseri umani pesantemente danneggiati, in realtà.)
2) Una parte cristallizzata, stereotipica, socialmente condivisa, che agisce in modo adattivo o disadattivo a seconda del contesto. Essendo fossile, in alcune circostanze e in alcuni contesti sociali, funziona benino. In altri funziona male, come spesso funzionano male i meccanismi inattuali. È composta dagli stereotipi di cui sopra. È la parte a cui lo psicopatico si ispira per la sua mimesi.
3) Una parte rimossa, più o meno ampia a seconda del contesto di appartenenza, che agisce in modo imprevedibile. Questo, secondo alcuni, è il nucleo a cui, effettivamente, lo psicopatico attinge per agire (come psicopatico, non come mimesi).
Quando parliamo di femminicidio, quindi, ma anche quando parliamo di discriminazioni maschi/femmine sul lavoro, di prostituzione, di violenza domestica, di stupro, di mercificazione del corpo femminile e via salendo, parliamo di un unico processo, che assume differenti connotati a seconda di quale componente sta esprimendo.
La parte sana, che è quella che fa girare la specie umana, la parte cristallizzata, che è quella che dà origine agli stereotipi, e la parte rimossa, che è quella che dà origine all’inspiegabile.
Mi spingerò oltre. Mi pare abbastanza evidente che queste tra componenti, nella società come nell’individuo, siano plastiche e interconnesse. La seconda parte è composta dalla cristallizzazione di elementi della prima; una cristallizzazione originatesi in tempi antichi per motivi di ordine sociale e le cui vestigia sono giunte fino a noi.
Forse ricorderete l’esilarante scena ne Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, in cui i giovani uomini scimmia vanno a procurarsi una compagna per iniziare la nuova moda dell’esogamia.
Visto che, chiaramente, rincorrersi, stordirsi con una mazzata in testa e poi rotolarsi nell’erba accoppiandosi non è un modo molto ordinato per sbrigare le pratiche riproduttive, in tempi relativamente remoti la società ha provveduto a formalizzare diversamente questo iter, con un occhio di riguardo alle questioni patrimoniali.
A sua volta, la componente rimossa rappresenta la rimozione di parte delle altre due componenti. Di una parte che, per qualche ragione, l’individuo o la società ritengono altamente censurabili.
L’uomo che picchia sua moglie, mediamente, lo fa in modo compulsivo. Non riesce a trattenersi o si trattiene solo con gradissimo sforzo, per poi sfogarsi in seguito. Per lo più, è intimamente consapevole che il suo comportamento non è sano. Dato che non riesce a evitarlo, cerca di razionalizzarlo riferendosi a uno stereotipo. Quando un uomo violento torna piangendo e chiede scusa è realmente pentito (in quel momento). Questo non significa che non lo rifarà. Lo rifarà appena la pressione raggiungerà quel certo valore critico, per poi razionalizzarlo dicendosi che sua moglie l’ha provocato e infine per pentirsi piangendo lacrime da coccodrillo.
La donna che continua a subire le violenze del suo compagno, d’altro canto, si rifà a quella stessa componente cristallizzata a cui il suo compagno si ispira per razionalizzare, dando vita al ben noto fenomeno di interdipendenza vittima/carnefice. Ma, semplificando al massimo e senza pretesa di trattare esaustivamente qua la questione, si tratta di una razionalizzazione anche nel suo caso, che ha le radici in quella componente rimossa che rassicura: “il tuo carnefice non ti abbandonerà mai”.
Ora, io credo che per la nostra società sia molto importante essere consapevole di queste dinamiche, di questi processi.
La nostra società censura molto e censura praticamente a casaccio, di questi tempi. Se fino alla metà del ’900 la tendenza era quella di cristallizzare il più possibile, incatenando gli esseri umani a convenzioni rigide e spesso insensate, dagli anni ’60 in poi la tendenza è stata quella di non-cristallizzare.
Esaminando la storia della malattia mentale, si nota che fino agli anni ’50 gli specialisti osservavano e trattavano in prevalenza due tipi di disturbo: quelli psicotici (deliri, allucinazioni, dispercezioni palesi – che ora sappiamo prevalentemente a base organica) e quelli nevrotici, per lo più internalizzanti (ritiro sociale, ansia, disturbi somatici, depressione – che hanno a loro volta una spiegazione organica, ma le cui cause sono strettamente collegate al contesto sociale).
A partire dagli anni ’80, gli specialisti della salute mentale hanno osservato un incremento esponenziale di disturbi di un altro tipo: i disturbi esternalizzanti. Con questo (brutto) termine, si intendono i disturbi che implicano una difficoltà di pianificazione e l’azione immediata di qualsiasi pulsione.
I pazienti esternalizzanti agiscono senza pensare, senza passare dal via, senza sapere neanche loro perché.
Nel (più che motivato) tentativo di liberarci dalle imposizioni sociali, abbiamo amplificato una serie di comportamenti esplosivi che presuppongono un agito di una parte rimossa (o non cosciente) che gli psicoanalisti definiscono un po’ punitivamente Es.
Allo stesso modo, penso io, nello smantellare quella componente cristallizzata che è alla base della discriminazione sessuale e del sessismo, la nostra società dovrebbe fare particolare attenzione a rendere consapevoli le parti che si stanno scongelando, e non, più comodamente, censurarle e basta.
In modo da poter pensare “mi piaci così tanto che ti sbatterei sull’erba e ti scoperei fino a domani, ma ti corteggio”, invece di corteggiare nevroticamente fino all’esaustione mentale; ma anche in modo da non agire l’impulso senza mentalizzarlo.
Che poi, se ve lo state chiedendo, è uno stupro.
Che cos’è, quindi, il femminicidio, ma anche la violenza contro le donne, ma anche le discriminazioni sul lavoro, ma anche… ecc. ecc.?
In ognuno degli individui che lo commette è un percorso personale, unico, di malattia mentale e disadattamento.
Ma a livello collettivo, a livello sociale, è il segno di una società che non riflette sui propri meccanismi. Che non li pensa, non li conosce, non li sente. E li esperisce senza alcuna consapevolezza.
È una società che non si pensa.
Una società di psicopatici.

mercoledì 7 dicembre 2011

Qualche riflessione, a partire da un libro.


Ho iniziato un libro di Ingnacio Garcia-Valino, Caro Caino. Sono solo a un terzo, quindi non so ancora se mi piace, ma mi ha già fatto riflettere. Il che, probabilmente, significa che è un buon libro a prescindere.
Garcia-Valino, oltre a essere uno scrittore, è uno psicologo dell'età evolutiva e anche il suo protagonista è uno psicologo. La storia è incentrata su un paziente immaginario di questo psicologo, un ragazzino di dodici anni che ha dei comportamenti piuttosto preoccupanti. Apatico, anaffettivo, intelligentissimo, ha fatto in modo che il cane di famiglia finisse sotto a un camion.
La psicologa della scuola (sì, questo libro è pieno di psicologi) si è fatta un'idea molto precisa del ragazzino, Nico. Molto precisa e probabilmente sbagliata, dato che Nico con lei ha comunicato ben poco.
Credo che serva uno psicologo per capire perché quel personaggio è così deprimente: senza aver stabilito alcun contatto con Nico, la dottoressa è sicura di aver capito che cosa si agita nelle sue profondità: un bisogno d'affetto inespresso e inesprimibile, conflitti inenarrabili... Tutto questo con ben pochi dati a disposizione.
Se è vero che l'intuito terapeutico ti aiuta nella diagnosi, è vero anche che la nostra categoria dovrebbe essere molto cauta. Garcia-Valino, nel suo libro, esprime delle critiche non particolarmente velate al modello freudiano. O meglio, esprime delle critiche al modo in cui talvolta questo modello viene applicato.
Il fenomeno ha un nome: interpretatività. Quando uno psicologo è interpretativo, crea dei nessi causali laddove non ha prove che ci siano, sulla base del suo intuito e della sua teoria di riferimento. In questo caso, la psicologa del libro potrebbe anche avere ragione, alla fine, ma sta già osservando il suo cliente attraverso le lenti deformanti di un pregiudizio - cosa che il protagonista-psicologo le fa notare in tono seccato.
L'interpretazione è uno degli strumenti della tecnica psicoanalitica, uno strumento che gli stessi didatti freudiani invitano a utilizzare con parsimonia, perché, se mal utilizzato, il cliente si trova soltanto a ricevere una spiegazione pre-confezionata, che non ha pensato, sentito, né introiettato. Un qualcosa che gli viene appoggiato sulle spalle senza che abbia modo di farci niente.
Ovviamente, questo è il mio punto di vista (e di svariati altri colleghi, anche illustri).
Personalmente, da brava gestaltista, sono per la fenomenologia: osservare ciò che c'è, che è presente in quel momento, e chiedere al cliente qual è il suo significato.
Un terapeuta che si affida alla fenomenologia, forse, sembrerà meno intelligente, ma quanto meno sa che tutti i significati che girano in seduta sono del cliente - e non sue proiezioni.
Magari ne riparliamo, ok?

martedì 4 ottobre 2011

Agenti virali


L'altro giorno, mi è venuto in mente qualcosa a cui non avevo mai pensato. Niente di trascendentale, intendiamoci.
Ho pensato:
La nostra terra esiste da miliardi di anni. Gli esseri umani la abitano da circa 200.000 anni. In tutto questo tempo, l'impatto dell'uomo sul pianeta è stato minimo. Poi, negli ultimi due secoli, siamo riusciti a compromettere gravemente la terra in cui viviamo. L'inquinamento atmosferico, la cementificazione, l'inquinamento acustico... E tutto questo solo in 200 anni.
E' come se un pachiderma fosse stato colpito da un virus che l'ha messo ko in un secondo.
E non abbiamo lasciato il pianeta fino alla fine degli anni '60. Anche qua, in soli cinquant'anni, siamo riusciti a rendere lo spazio attorno alla terra un'immensa pattumiera di relitti cosmici.
Siamo l'agente patogeno più micidiale che si sia mai visto in giro, altro che vaiolo, peste o ebola!
Lo so, è un pensiero un po' triste, ma mi andava di condividerlo con voi.

venerdì 30 settembre 2011

Benvenuti

E' con grande piacere che do il benvenuto a tutti sul mio sito. Spero che questo possa diventare un luogo (uno dei molti, in rete) in cui scambiarsi informazioni, notizie interessanti e opinioni. Di natura psicologica, ovviamente, ma non solo.
Intanto, qualche informazione su di me: ho trent'anni, mi piace scrivere, scoprire cose nuove e conoscere persone interessanti. Che poi, a ben vedere, ogni persona è interessante, quindi mi correggo: conoscere persone. Mi sono laureata in psicologia clinica e neuropsicologia all'Università di Milano-Bicocca nel 2007 ed esercito la professione nella mia città natale, La Spezia.
Ma ci conosceremo meglio in seguito.
Per il momento, di nuovo benvenuti.
Non so ancora in che direzione andrà questo blog, ma sarà bello fare una parte di cammino insieme.

Susanna

PS. Questo blog è pieno di immagini di alberi. Alberi e libri, lo so. Il fatto è che gli alberi, proprio come le persone, crescono. E che i libri, proprio come la terra, il cibo e le relazioni con gli altri, nutrono. E poi mi piacciono, entrambi.