mercoledì 7 dicembre 2011

Qualche riflessione, a partire da un libro.


Ho iniziato un libro di Ingnacio Garcia-Valino, Caro Caino. Sono solo a un terzo, quindi non so ancora se mi piace, ma mi ha già fatto riflettere. Il che, probabilmente, significa che è un buon libro a prescindere.
Garcia-Valino, oltre a essere uno scrittore, è uno psicologo dell'età evolutiva e anche il suo protagonista è uno psicologo. La storia è incentrata su un paziente immaginario di questo psicologo, un ragazzino di dodici anni che ha dei comportamenti piuttosto preoccupanti. Apatico, anaffettivo, intelligentissimo, ha fatto in modo che il cane di famiglia finisse sotto a un camion.
La psicologa della scuola (sì, questo libro è pieno di psicologi) si è fatta un'idea molto precisa del ragazzino, Nico. Molto precisa e probabilmente sbagliata, dato che Nico con lei ha comunicato ben poco.
Credo che serva uno psicologo per capire perché quel personaggio è così deprimente: senza aver stabilito alcun contatto con Nico, la dottoressa è sicura di aver capito che cosa si agita nelle sue profondità: un bisogno d'affetto inespresso e inesprimibile, conflitti inenarrabili... Tutto questo con ben pochi dati a disposizione.
Se è vero che l'intuito terapeutico ti aiuta nella diagnosi, è vero anche che la nostra categoria dovrebbe essere molto cauta. Garcia-Valino, nel suo libro, esprime delle critiche non particolarmente velate al modello freudiano. O meglio, esprime delle critiche al modo in cui talvolta questo modello viene applicato.
Il fenomeno ha un nome: interpretatività. Quando uno psicologo è interpretativo, crea dei nessi causali laddove non ha prove che ci siano, sulla base del suo intuito e della sua teoria di riferimento. In questo caso, la psicologa del libro potrebbe anche avere ragione, alla fine, ma sta già osservando il suo cliente attraverso le lenti deformanti di un pregiudizio - cosa che il protagonista-psicologo le fa notare in tono seccato.
L'interpretazione è uno degli strumenti della tecnica psicoanalitica, uno strumento che gli stessi didatti freudiani invitano a utilizzare con parsimonia, perché, se mal utilizzato, il cliente si trova soltanto a ricevere una spiegazione pre-confezionata, che non ha pensato, sentito, né introiettato. Un qualcosa che gli viene appoggiato sulle spalle senza che abbia modo di farci niente.
Ovviamente, questo è il mio punto di vista (e di svariati altri colleghi, anche illustri).
Personalmente, da brava gestaltista, sono per la fenomenologia: osservare ciò che c'è, che è presente in quel momento, e chiedere al cliente qual è il suo significato.
Un terapeuta che si affida alla fenomenologia, forse, sembrerà meno intelligente, ma quanto meno sa che tutti i significati che girano in seduta sono del cliente - e non sue proiezioni.
Magari ne riparliamo, ok?

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